Una giornata tipo in spedizione al K2 70.
In link il racconto più generico della spedizione K270 dal mio punto di vista: https://www.loscarponecai.it
Giorno 19- la mingollata
Camminare sotto il cielo stellato ha davvero un non so che di romantico.
Anche se sono le 3 di notte e sei a più di 5000 metri e ogni cellula del tuo corpo ti direbbe il contrario.
Io cammino, cammino, guardo la luna a forma di falce e mi dico che c’è tanta, ma tanta bellezza in quello che sto ammirando.
Mi sento grata.
Non tutti possono godere di quello che sto vivendo io. Poi ovviamente questo vale anche per me. Ognuno vive qualcosa di incredibile e probabilmente si sente esattamente come me in questo momento, magari dall’altra parte del mondo.
Camminiamo per due ore facendo delle serpentine in mezzo ai crepacci e seracchi fino all’ ABC (advanced base camp).
Spegniamo le frontali e con le prime luci iniziamo anche noi a svegliarci veramente.
Ora invece che ammirare la luna mi concentrerò solo a mettere un piede davanti all’altro sui pendii ripidi di neve e roccia fino a campo 1.
Mentre salgo la neve è ancora bella dura grazie al cielo, questo mi permette di essere più veloce e fare meno fatica.
Mi metto della musica così da distrarmi un po’… La salita è veramente lunga e senza una piccola distrazione rischia di diventare davvero pesante.
Questa volta, a differenza della prima, cerco di fermarmi a respirare bene e recuperare ogni 5/6 passi. Devo andare piano e non avere fretta di raggiungere i campi. La quota te lo impone. L’ipossia detta legge su queste montagne.
Mi sforzo quindi di arrivare a campo 1 lentamente. Infatti sto veramente bene! Faccio respiri profondi e aspetto sempre che i battiti scendano un poco prima di ripartire. A campo 1 mi mangio del parmigiano con la bresaola e dei cracker secchi, poi aspetto Silvia e scambio due parole con lei prima di ripartire. Lei è arrivata 30 minuti circa dopo di me e vuole riposare un po’ prima di riprendere la salita.
Poco male, ho la mia musica, salgo anche da sola.
Faccio partire i blink 182 e sotto le note di Miss you mi inerpico con la mia jumar sui ripidi pendii che conducono a campo 2.
Il percorso si fa più tecnico man mano che sali: pendii di neve si alternano a muri di roccia e traversi un po’ ghiacciati.
Ogni tanto mi fermo in qualche punto comodo e appoggio lo zaino alle rocce e il mento sulle ginocchia, mi rannicchio e prendo il sole, a volte mi addormento, a volte mi serve solo per staccare un po’ la testa dalla salita.
Sembra non finire mai.
Oggi è veramente lunga: 1800 metri di dislivello sopra i 5000 metri sono davvero tanti.
Anche se sei allenato.
Anche se stai bene.
Anche se ti dicono che è un’idea saggia.
Non lo è!
Me ne accorgo nel momento in cui esco annaspando dal famoso camino bill . Ci sono ancora 200 metri scarsi in linea d’aria per raggiungere la tenda ma io sono veramente stufa. Stufa è la parola giusta perché vuole dire che non c’è più motivazione per andare avanti. Se fossi stata stanca ma motivata sarebbe stato ancora diverso.
Io ero solo stufa.
Volevo girare i tacchi e scendere invece arriva proprio in quel momento Dario, un ragazzo che come me fa parte di una spedizione organizzata dal CAI per la salita del K2. Lui mi saluta e mi fa i complimenti per il mio passo. Io lo guardo con la faccia di chi non ne può più e gli dico: “Si, ma che palle!!!”.
Mi si affianca e facciamo gli ultimi agognati metri insieme. Siamo a 6700 metri.
Ovviamente campo 2 è scomodo e c’è un sacco di vento. Ci accucciamo insieme nella tenda e aspettiamo Silvia. Dario cerca di sdrammatizzare la situazione e io lo apprezzo moltissimo ma dentro di me sono molto pessimista. Sento che ho fatto fatica, troppa, non tanto per lo sforzo fisico in sé ma per la motivazione che scendeva man mano che salivo. Perché? Ho voluto io essere qui, è stata una mia decisione in fondo… Perché mi manca quel fuoco dentro che mi caratterizza e mi fa spesso realizzare ciò che mi sembra impossibile?
Dov’è quella fiamma?
Non ne vedo neanche la scintilla.
Dario nel frattempo parla, parla, parla… Io faccio finta di ascoltarlo, la mia testa è altrove.
Dov’è Silvia ?
Quanto ancora dovrò aspettare?
Dobbiamo decidere insieme cosa fare. Se scendere, rimanere su a campo 2, cosa lasciare in tenda nel caso scendessimo… Sono confusa e ho bisogno di un’altra testa per ragionare e prendere delle decisioni.
Agostino alla radio nel frattempo mi sprona a rimanere su anche nel caso in cui dovessi essere da sola. Io non ne ho alcuna voglia. Sono spaventata.
Penso: “e se dovessi star male? Qui da sola? Con il vento che sdraia la tenda e il dubbio della meteo per il giorno seguente.No…non se ne parla nemmeno.” Ed ecco la testa di Silvia che sbuca dentro l’antro della tenda. Bofonchia qualcosa a proposito del mal di testa e poco dopo infatti la osservo calarsi giù un diamox. Cavolo, penso, dovrei prenderlo anche io probabilmente, così, preventivo. Mi sento bene e decido di non farlo.
Quella mezz’ora nella tenda insieme mi convinco a non provare nemmeno a proporre a Silvia l’opzione di rimanere lì a dormire. Sono abbastanza convinta che mi manderebbe a stendere solo a chiederglielo.
Mollo tutto lì e scendiamo, veloci, verso campo 1. Dario ci segue e ci intrattiene ovviamente con i suoi discorsi che sembrano non esaurirsi mai.
Ha una forza incredibile quest’uomo, penso. Io non apro bocca, sono un po’ stanca e stufa, voglio solo cacciarmi in tenda e mangiare qualcosa.
La fame però se ne va in un paio d’ore dal mio arrivo al campo 1. Dopo una breve siesta immersa nel caldo dei sacchi a pelo mi sveglio con un mal di testa martellante e una nausea insopportabile.
È arrivato il momento di provare a calarmi un diamox e chissà se magari starò meglio anche io.
Il tentativo di deglutire la pastiglia non va a buon fine e mi rimane strozzata in gola.
Faccio un altro tentativo ma non serve a nulla perché di nuovo la pastiglietta rotonda rimane lì, ficcata tra l’epiglottide e la lingua.
“Devo vomitare!”.
Apro la tenda e ficco la testa fuori per realizzare quanto appena detto.
Non esce nient’altro se non acidi e sangue, continuano i conati per 2 minuti, poi le lacrime…
Piango sulla neve macchiata di sangue.
Piango per la disperazione più che per la tristezza.
Piango dolcemente come una bambina che vorrebbe essere coccolata dopo una brutta caduta.
Sono fragile e vulnerabile, sono sola.
So che non posso stare più lì con le altre ragazze ma devo scendere.
“Scendo” dico mentre cerco di riprendere il controllo della mia voce.
Tremo.
“Scendo cazzo!”grido a me stessa più che alle altre che poverine non sanno come aiutarmi.
“Sei sicura? È quasi buio! Aspetta domani e scendiamo assieme…” Interviene Anna.
“Non me ne frega niente del buio, io scendo ora, mi sono rotta le palle di stare qui in questo stato…” Metto il discensore nelle corde fisse e già mi sento meno forte di prima, quando ero sicura di scendere da sola da campo 1.
Sono sola.
Sola nel buio.
Sono debole, mi sento estremamente debole.
Faccio 10 metri in giù e mi fermo a respirare e a singhiozzare.
Dai Fede, sei forte! Hai fatto cose molto più difficili di questa discesa.
Metto un po’ di musica e subito i miei muscoli, il mio cuore, il mio respiro iniziano a rallentare.
Mi calmo.
Sono calma.
“Respiri piano senza far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli con il sole…”
Canta Vasco.
Io scendo, più serena, con le stelle a tenermi compagnia. Guardo il cielo e respiro profondamente.
Mi rendo conto in quel momento di aver dimenticato la radio in tenda a campo 1.
Merda!!
Merda, merda…
Agostino sarà furioso, le ragazze preoccupate, chissà…
Fa nulla, ho il satellitare, posso comunque comunicare con loro con i messaggi e aggiornarli di ora in ora.
Alla fine delle corde fisse mi siedo un po’ sullo zaino e cerco di ritrovare le energie per continuare la discesa. Manca poco al campo base avanzato. Sono molto debole. Devo mangiare.
Prendo del chapati che mi è rimasto nello zaino da chissà quanto tempo e cerco piano piano di mandarlo giù. Mastico piano e guardo le stelle. Parlo con loro.
“Perché faccio così schifo? Perché non posso stare bene almeno una notte? Ho bisogno di un segno positivo altrimenti non ce la faccio…”
Ricomincio a piangere.
“Non ce la faccio …”
Imploro qualcuno lassù di starmi vicino.
Mi sento così sola di nuovo.
Cambio canzone.. questa volta sono i Guns a tenermi compagnia.
Riprendo la discesa, questa volta senza fisse, 200 metri di pendio ripido da scendere piano piano facendo attenzione a non scivolare sul ghiaccio che in alcuni punti ha cominciato ad affiorare. yesterday.. there was so many things I was never told…- cantano i guns.
Il mio pensiero va a casa, a chi probabilmente in quello stesso momento mi sta pensando.
Mi manchi. Anche tu mi manchi. Stai con me.
Mi sento improvvisamente meno sola e le forze le sento crescere dentro di me.
Al campo base avanzato mi prendo altri 15 minuti per riposare e osservare il cielo, pensare, cambiare canzone, cercare di approfittare di quel momento nonostante sia frutto di qualcosa di doloroso.
L’ultimo sforzo sono 2 ore di vagabondaggio in mezzo a labirinti di crepacci e ponti di ghiaccio. Mi faccio forza. Con il buio sarà complicato ma ormai mi sento più forte, non sono più sola, arriverò al campo base e mi accuccerò nel mio sacco a pelo prima della mezzanotte.
Vago, salto, torno indietro, ritrovo la strada, impreco e rido , mi compiaccio, canto alle stelle, mi faccio aiutare dalla mappa digitale e dalla memoria … e alle 23:00 sono all’inizio delle tende del BC.
Ritrovo la mia in mezzo al buio e al silenzio della notte.
La apro e prima di richiudermela dietro lancio un ultimo sguardo al cielo.
“Grazie..” sussurro.
Entro.
Non mi spoglio nemmeno.
Butto su il sacco a pelo e sprofondo in un sonno profondo e rigenerante.
Ora sono felice.
Ciao mondo, me ne vado per un po’.